Questo (non) è un museo

Mostra collettiva

A cura di Claudio Zecchi e Paolo Mele




Capitolo uno.

Questo (non) è un museo è un progetto espositivo che intende proseguire una linea di ricerca decennale su pratiche e metodologie sperimentali, artistiche e istituzionali, provando a costruire nuove sensibilità e possibili forme di narrazione e coinvolgimento di un territorio. 
Lo fa a partire da una collezione già esistente, quella di Ramdom, le cui opere sono nate, per la maggior parte, da processi, contesti e ambiti di ricerca molto specifici. Riproporle tanto in una nuova veste, quanto in altre aree geografiche, o luoghi, significa provare ad indagarne e ampliarne i significati. A queste si affiancheranno nuove produzioni che popoleranno Castrignano de’ Greci nel corso dei prossimi anni.
Il progetto, che durerà almeno sino a giugno 2026, è il tentativo di misurarsi e rimettere in discussione i limiti o il potenziale di un’istituzione culturale, quella museale nel caso specifico, interrogandosi sulla sua funzione, sulla sua pratica e sulla sua capacità di agire in un territorio creando nuovi immaginari. 
Questo (non) è un museo è in questo senso un tentativo (sebbene non del tutto nuovo) di natura metodologica per provare a trovare al di fuori di KORA, fino ad oggi il cuore pulsante della nostra proposta culturale, nuovi spazi di sperimentazione fuori dal controllo e di messa in discussione dell’istituzione stessa.

Castrignano de’ Greci, e i luoghi che di volta in volta accetteranno di accogliere un’opera d’arte, sono perciò lo sfondo, il laboratorio, il campo operativo di incursioni che si produrranno nel tempo senza una necessaria cadenza e cronologia. La “casualità” diventerà un elemento che entrerà significativamente in gioco cercando di produrre nuove relazioni e nuove tracce di collettività. 
La mappa che proveremo a costruire nel tempo sarà quindi solo una bussola provvisoria per orientarsi. Il posizionamento delle opere nei luoghi sarà citato ma non numerato. Le opere stesse, che fanno parte della collezione di Ramdom, e che sono nate in contesti specifici, verranno installate nuovamente allargando così i confini dei possibili e imprevedibili significati che vanno al di là di quelli che già conosciamo e che ancora oggi sono nascosti. 

Per questo primo capitolo, a cura di Claudio Zecchi e Paolo Mele, abbiamo volutamente scelto opere della collezione di Kora che poggiano su una forte dimensione narrativa, che partono dalla tradizione orale e dalla mancanza di fonti certe per costruire “un’altra” storia del paese e di alcuni suoi luoghi storici o iconici (Castrignano de’ Greci, Parco delle Pozzelle, Palazzo Baronale de Gualtieriis) come nel caso della documentazione di According to some (2022) di Theodoulos Polyviou e Alfatih. Attraverso quest’opera la storia dei luoghi diventa una storia di transizione continua in cui lo spazio fisico diventa spazio storico, che a sua volta diventa spazio virtuale. L’opera di Polyviou e Alfatih ci insegna che le strutture materiali riflettono le tradizioni locali e che i miti possono ancora essere considerati uno dei primi resoconti di costumi e valori sociali che caratterizzano le fondamenta stesse di un luogo. According to some si preoccupa dunque di diffondere la creazione di utopie attraverso, come dicono i due artisti, modi esoterici di narrazione e confabulazioni. 
Oppure opere che rielaborano la memoria personale ricostruendo fisicamente spazi architettonici che fanno parte di un passato imprenditoriale familiare come nel caso di Sapeva la forma delle nubi (2022) di Matteo Pizzolante. In quest’opera, presentata per l’occasione in una nuova veste rispetto a quella originaria (i negativi delle porte e il plastico di una delle stanze dell’albergo animato da due video che raccontano la ricostruzione virtuale dell’albergo stesso), le immagini rappresentano le stanze di un albergo di famiglia costruito sul litorale salentino negli anni Ottanta del Novecento e oggi ridotto a rudere in seguito a una serie di vicende che ne hanno decretato l’abbandono. Ricostruite digitalmente sono espressione, come l’artista stesso afferma, di una lucida memoria familiare. Ma, la ricchezza e l’accuratezza dei dettagli che emerge dalle immagini di questa memoria familiare le rende universali, raffigurando frammenti di una quotidianità comune a molti. 
O ancora opere che, come nel caso di OLGA (Outdoor Lab for Gathering the Absence) (2019) di Lia Cecchin, avvalendosi di una app (FlashFace) che adopera il linguaggio di programmazione che viene utilizzato anche dalla polizia nella costruzione degli identikit, lo spettatore viene messo di fronte alla formalizzazione del proprio ricordo. Così quello che normalmente è solo pensiero ha modo di prendere forma diventando volto grazie ad uno strumento che mette alla prova il bagaglio mnemonico di chi deciderà di utilizzarlo. Come accade con le storie, che di racconto in racconto si arricchiscono di dettagli, perdendone degli altri, anche il ricordo dell’immagine di una persona, per quanto cara, corre il rischio nel tempo di arrivare a falsare l’originale. OLGA vuole mettere il pubblico di fronte alla possibilità di scoprirlo attraverso la costruzione di ritratti apparentemente perfetti e realistici, ma al contempo insidiosi e fallaci. 
Infine opere che, come Ex libris (2019-2023) di Marcello Nitti, una nuova produzione realizzata a partire da un’opera già esistente dell’artista ma appositamente ripensata per questa occasione, cerca di ragionare sulla riproducibilità, la proliferazione e la disseminazione di un’immagine attraverso differenti tecniche di grafica, da quelle tradizionali a quelle moderne, che ne permettono la diffusione in vari luoghi della città con modalità alternative. Se l’iconografia di riferimento è quella di un paesaggio di scorcio che richiama i capricci barocchi, l’uso di apparati differenti ne determina un ribaltamento di senso rispetto alla preziosità, all’attenzione e alla minuzia generalmente riferita agli Ex Libris. I materiali sono infatti meno ricercati, le tecniche di stampa più approssimative e la resa non vuole essere sofisticata.  Il processo fa quindi parte, come dice l’artista, <<di quella pratica di appropriazione delle immagini della storia dell’arte che ha trasformato quadri famosi, stampe e disegni in placeholder per le occasioni più disparate: arredamento domestico, insegne, calendari, cuscini, decorazioni parietali che caratterizzano ambienti diversi e di cui i fruitori spesso non hanno idea della genesi (né dell’autore, né delle intenzioni) dell’opera (o del surrogato di opera) che si trovano a guardare>>.
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Capitolo due.

Per questo secondo capitolo, a cura di Claudio Zecchi e Paolo Mele, abbiamo scelto opere della collezione di Ramdom che poggiano su una forte dimensione politica e sociale. Come dice Carlos Basualdo, la forza dell’arte sta nello sviluppare «rappresentazioni innovative che sfuggono all’interpretazione politica» e gli artisti scelti, anche se in modo non sempre dichiarato, considerano il loro un ruolo attivo nella società e l’arte un vettore attraverso il quale rigenerare uno sguardo critico portatore di una consapevolezza più ampia. Una consapevolezza che riguarda temi di grande attualità come l’attivazione di pratiche istituzionali nei piccoli centri, l’ecologia, i flussi migratori e il femminismo per citarne alcune.

Il lavoro di Luigi Coppola dal titolo Vinculum, così fortemente connaturato al territorio Salentino, racconta, attraverso opere originariamente pensate per lo spazio pubblico di Castrignano de’ Greci, e poi re-installate nell’arco del Bar di KORA, gli anni di sperimentazione e ricerche negli uliveti salentini colpiti da co.di.ro. L’artista rende visibili le forze generatrici ancora presenti nei campi di ulivi, dati nella maggior parte dei casi per spacciati, e costruisce nuovi legami (Vinculum): qui gli esseri umani, diventando parte del paesaggio, si prendono le responsabilità delle scelte scellerate rispetto all’espansione della monocoltura, l’impoverimento del suolo, il rigetto della vita contadina e della cura dei propri ecosistemi. Attraverso un radicale ripensamento del nostro stare e agire, possiamo pensarci come agenti nei cicli della materia, ed accompagnare i processi naturali di agroforestazione del territorio per costruire un paesaggio multiplo. Le opere di Vinculum, dipinti e disegni su tela, sono pensate come un percorso visivo per rendere iconiche le piante, i gesti riparatori, i suoli, le radici.

Arachne di Romina De Novellis, è invece una fotografica realizzata durante la performance che ha rappresentato il punto d’arrivo del lavoro di ricerca svolto dall’artista sul fenomeno del tarantismo. Applicando una metodologia propria dell’etnologia, De Novellis ha voluto dare una lettura in chiave antropologica delle tarantate contemporanee, un’osservazione che ha incluso dinamiche sociali, culturali e politiche in cui il Salento e le sue donne sono inevitabilmente inserite, anche e soprattutto nella prospettiva di un’Italia schiacciata tra l’Europa e il Mediterraneo. Questa ricerca si è formalmente tradotta in una performance, realizzata il 10 giugno 2018; una lunga camminata che ha visto protagonisti l’artista e un gruppo di donne che si sono spontaneamente aggiunte nel corso del tragitto che va da Galatina a Santa Maria di Leuca, in una sorta di pellegrinaggio al contrario rispetto a quello percorso nella tradizione da chi si recava a chiedere la grazia a San Paolo. Pur non nascendo da un bisogno di protesta o di rivendicazioni femminili, la marcia di Arachne ha voluto lasciare una traccia del presente: la questione del genere, le donne, i migranti, le tradizioni religiose che limitano l’osmosi tra le culture, tutti temi di estrema attualità, che restano argomenti di discussione e di esclusione nelle società del Mediterraneo.

Infine Corpomorto di Elena Bellantoni è un’opera che, a partire da una serie di meditazioni intorno all’oggetto e al suo nome - corpo-morto evidenzia con il peso del cemento la presenza di molti corpi morti nei mari; an-coraggio sottolinea l’azione del buttarsi, il coraggio di avvicinarsi, attraccare e raggiungere la terra ferma. Corpomorto è infatti un termine marinaresco che indica un oggetto pesante utilizzato come ancoraggio sul fondo di una boa o di un pedagno.

L’artista ha originariamente messo in atto un’azione performativa durante la quale ha ancorato delle lettere in polistirolo con delle lastre di cemento in fondo al mare a comporre la frase nominale ancóra corpo-morto tra cielo e terra coraggio. Pur senza predicato, la frase diventa monito, messaggio in codice, poetico e politico.


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